viernes, 5 de septiembre de 2008

Il Trovatore/Opera-Verdi

Il trovatore è un'opera di Giuseppe Verdi rappresentata in prima assoluta il 19 gennaio 1853 al Teatro Apollo di Roma. Assieme a Rigoletto e La traviata fa parte della cosiddetta trilogia popolare.
Il libretto, in quattro parti e otto quadri, fu tratto dal dramma El Trobador di Antonio García Gutiérrez. Fu Verdi stesso ad avere l'idea di ricavare un'opera dal dramma di Gutiérrez, commissionando a Salvadore Cammarano la riduzione librettistica. Il poeta napoletano morì improvvisamente nel 1852, appena terminato il libretto, e Verdi, che desiderava alcune aggiunte e piccole modifiche, si trovò costretto a chiedere l'intervento di un collaboratore del compianto Cammarano, Leone Emanuele Bardare. Questi, che operò su precise direttive dell'operista, mutò il metro della canzone di Azucena (da settenari a doppi quinari) e aggiunse il cantabile di Luna (Il balen del suo sorriso - II.3) e quello di Leonora (D'amor sull'ali rosee - IV.1). Lo stesso Verdi, inoltre, intervenne personalmente sui versi finali dell'opera, abbreviandoli.
La prima rappresentazione fu un grande successo: come scrive Julian Budden, "Con nessun'altra delle sue opere, neppure con il Nabucco, Verdi toccò così rapidamente il cuore del suo pubblico".
Interpreti di quel fortunatissimo debutto furono: Il Conte di Luna, Giovanni Guicciardi, baritono; Leonora, Rosina Penco, soprano; Azucena, Emilia Goggi, mezzosoprano; Manrico, Carlo Baucardé, tenore; Ferrando, Arcangelo Baldesi, basso; Ines, Francesca Quadri, soprano; Ruiz, Giuseppe Bazzoli, tenore.
La trama - oltremodo intricata e romanzesca - si sviluppa parte in Biscaglia e parte in Aragona all'inizio del XV secolo.
Trama
Parte I - Il duello
La scena si apre nel palazzo dell'Aliaferia dove Ferrando, capitano delle guardie, racconta agli armigeri la vicenda del fratello del Conte di Luna, rapito anni prima da una zingara, poi catturata e bruciata viva (Abbietta zingara). I resti del fanciullo erano poi stati trovati tra le braci del rogo della zingara e Ferrando ritiene che a gettarlo sia stata la figlia della zingara, di cui i soldati ora chiedono la morte. Nel frattempo Leonora, giovane nobile amata dal Conte di Luna, confida a Ines, sua ancella, di essere innamorata di Manrico (Tacea la notte placida), il Trovatore appunto. Il conte, intento a vegliare sul castello, ode la voce di Manrico che intona un canto (Deserto sulla terra). Leonora esce, e confusa dall'oscurità, scambia il conte per Manrico e l'abbraccia. Ciò scatena l'ira del trovatore, che sfida a duello il rivale.
Parte II - La gitana
Ai piedi di un monte, in un accampamento di zingari (coro degli zingari: Vedi le fosche notturne spoglie), Azucena, madre di Manrico, racconta che un tempo (Stride la vampa), dopo aver visto sua madre arsa sul fuoco, per vendetta e disperazione gettò nel fuoco un bimbo rapito a corte: per una tragica fatalità, però, questi non era il supposto fratello del Conte di Luna bensì il suo proprio bambino. Nella scena successiva il Conte tenta di rapire Leonora. mentre si affretta ad andare al convento ma Manrico ne sventa il pericolo, e porta in salvo l'amata.
Parte III - Il figlio della zingara
Azucena è catturata da Ferrando e condotta dal Conte di Luna. Manrico e Leonora stanno per sposarsi in segreto e si giurano eterno amore. Il Conte Ruiz sopraggiunge ad annunciare che la zingara Azucena è stata catturata e di lì a poco sarà arsa viva come strega. Manrico si precipita in soccorso della madre cantando la celebre cabaletta Di quella pira.
Parte IV - Il supplizio
Il tentativo di liberare Azucena fallisce e Manrico viene imprigionato nel palazzo dell’Aliaferia: madre e figlio saranno giustiziati all'alba. Nell’oscurità, Ruiz conduce Leonora alla torre dove Manrico è prigioniero (Timor di me?...D'amor sull'ali rosee). Leonora implora il Conte di lasciare libero Manrico: in cambio è disposta a offrirsi a lui. In realtà non ha alcuna intenzione di farlo: ha già deciso che si avvelenerà prima del matrimonio (Mira, d'acerbe lagrime). Il Conte accetta e Leonora chiede di dare lei stessa a Manrico la notizia che è libero. Ma prima di entrare nella torre, prende, di nascosto, il veleno che ha nell’anello.
Intanto, Manrico e Azucena sono in attesa della loro esecuzione. Manrico cerca di calmare la madre, terrorizzata dall'idea di dover morire (Ai nostri monti ritorneremo). Alla fine, la donna si addormenta sfinita. Leonora arriva da Manrico e gli dice che è libero, implorandolo di scappare. Quando però scopre che lei non verrà con lui, Manrico si rifiuta di farlo. Dapprima crede che Leonora l'abbia tradito ma poi capisce che lei si è avvelenata pur di restargli fedele. Agonizzante tra le sue braccia, lei confessa che preferisce morire piuttosto che sposare un altro (Prima che d'altri vivere). Il Conte entra e trova Leonora morta tra le braccia del rivale: ordina che Manrico venga subito giustiziato. Azucena rinviene e si alza dal suo giaciglio. Quando il Conte di Luna le mostra Manrico morente, la donna urla trionfante che Manrico altri non era che suo fratello e che finalmente la vendetta di sua madre morta sul rogo si è consumata: "Egli era tuo fratello. Sei vendicata, o madre".
Trasposizione al cinema
Tra le numerose trasposizioni cinematografiche del Trovatore spicca quella del 1949 (Il trovatore (film)) diretta da Carmine Gallone, il regista specializzato in film-opera.
Curiositá
Nel cartone animato Grattachecca e Fichetto dei Simspon viene ripetuta come sottofondo la musica del coro degli zingari che apre il secondo atto (Chi del gitano i giorni abbella?).
Preso Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Nabucco/Opera-Verdi

Nabucco è la terza opera lirica (il titolo originale completo è Nabucodonosor) di Giuseppe Verdi e quella che ne decretò il successo. Composta su libretto di Temistocle Solera, Nabucco fece il suo debutto il 9 marzo 1842 al Teatro alla Scala di Milano. Questi gli interpreti di quella prima: Nabucodonosor, Giorgio Ronconi, baritono; Ismaele, Corrado Miraglia, tenore; Zaccaria, Prospero Derivis, basso; Abigaille, Giuseppina Strepponi, soprano; Fenena, Giovannina Battaglia, soprano; Il Gran Sacerdote, Gaetano Rossi, basso.
È stata spesso letta come l'opera più risorgimentale di Verdi, poiché gli spettatori italiani dell'epoca potevano riconoscere la loro condizione politica in quella degli ebrei soggetti al dominio babilonese.
Questo tipo di lettura è tuttavia incentrata soprattutto sul famosissimo coro Va', pensiero, sull'ali dorate, intonato appunto dal popolo ebreo. Il resto del dramma è invece incentrato sulle figure drammatiche del re di Babilonia Nabucodonosor e della sua presunta figlia Abigaille.
Occorre inoltre ricordare che il librettista Solera aderì alla battaglia risorgimentale da posizioni neoguelfe, circostanza che giustificherebbe la collocazione di un'autorità di tipo religioso, l'inflessibile pontefice Zaccaria, a capo della fazione ebrea. Una prospettiva non condivisa da Verdi, la cui simpatia e il cui interesse di drammaturgo vanno soprattutto verso le figure più complesse e tormentate del tiranno assiro e di Abigaille.
Tramma
Parte I - Gerusalemme
Gli Ebrei riuniti nel tempio di Gerusalemme piangono la loro sconfitta nella guerra contro i babilonesi. Zaccaria, il Gran Sacerdote, li invita a non disperare perché il Dio di Israele ha dato un segno del suo potere: Fenena, la figlia del re assiro, è loro prigioniera. Il giovane Ismaele, nipote di Sedecia re d'Israele, reca la notizia dell'imminente arrivo di Nabucco e del suo esercito. Quando Zaccaria gli affida la custodia di Fenena, egli riconosce la fanciulla che l'ha salvato dalla prigione al tempo della sua missione di ambasciatore a Babilonia. Ismaele, che ama riamato la figlia del suo nemico, intende ora ricambiare tanta generosità ma, mentre sta per trarre in salvo la fanciulla, viene fermato da Abigaille - una schiava ambiziosa ritenuta la seconda figlia di Nabucco - che irrompe nel tempio alla testa di un manipolo di guerrieri assiri travestiti da ebrei. La donna propone al giovane, di cui è anch'essa innamorata, uno scambio: il suo amore contro la salvezza del popolo ebraico. Ma Ismaele la respinge. Una folla di ebrei in fuga cerca invano rifugio nel tempio invaso dai nemici. Nabucco giunge con i suoi fino alla sacra soglia e Zaccaria lo sfida avvertendolo che se tenterà di profanarla Fenena sarà uccisa. Il re dapprima finge di esitare ma poi, deciso a distruggere ad ogni costo il regno d'Israele, sfida il Sacerdote ed ordina agli ebrei di prostrarsi davanti a lui. Zaccaria reagisce alzando il pugnale su Fenena ma Ismaele ferma la sua mano e libera la fanciulla attirando su di sé l'ira del suo popolo, che lo accusa di tradimento. Nabucco ordina di saccheggiare il tempio, mentre Abigaille si ripromette di cancellare dalla faccia della terra il popolo maledetto cui appartiene l'uomo che l'ha respinta.
Parte II - L'empio
Abigaille, sola negli appartamenti reali, tiene fra le mani una pergamena sottratta a Nabucco, che attesta le sue umili origini di schiava. La sua rabbia esplode in una furia incontenibile alla notizia che Fenena, nominata Reggente dal padre, ha dato ordine di liberare tutti gli ebrei. Ormai Abigaille è decisa a tutto pur di impossessarsi del trono.Zaccaria, prigioniero degli assiri, entra in una sala della reggia seguito da un Levita che reca le Tavole della Legge e, dopo aver sollecitato Iddio a parlare attraverso il suo labbro, si ritira.Ismaele, convocato dal Pontefice per rispondere del suo tradimento, è maledetto dai Leviti, ma Anna, sorella di Zaccaria, lo difende; il giovane infatti non ha salvato la vita ad un'infedele bensì ad un'ebrea, giacché la figlia del re nemico si è nel frattempo convertita alla Legge.La situazione precipita: in un rapidissimo susseguirsi di eventi Abigaille irrompe in scena con il suo seguito e pretende da Fenena la corona, ma Nabucco, creduto morto in battaglia, giunge e richiede per sé la corona. Poi comincia a deridere il Dio Belo, che avrebbe spinto i prigionieri a tradirlo, e dopo anche il Dio degli ebrei. Esige di essere adorato come l'unico Dio, minacciando di morte Zaccaria e gli ebrei se non si piegheranno al suo volere. Subito dopo si scaglia un fulmine sul suo capo, la corona cade al suolo e il re comincia a manifestare segni di follia. La corona viene prontamente raccolta da Abigaille.
Parte III – La profezia
Abigaille, seduta sul trono accanto alla statua d'oro di Belo, nei giardini pensili di Babilonia, riceve l'omaggio dei suoi sudditi. Quando il Gran Sacerdote le consegna la sentenza di condanna a morte degli ebrei, la regina si finge ipocritamente incerta sul da farsi. All'arrivo del re spodestato – in vesti dimesse e con lo sguardo smarrito – l'usurpatrice cambia atteggiamento e gli si rivolge con ironica arroganza, dando ordine di ricondurlo nelle sue stanze. Quindi lo avverte di essere divenuta la custode del suo seggio e lo invita perentoriamente a porre il regale suggello sulla sentenza di morte degli ebrei. Il vecchio re esita, Abigaille lo incalza accusandolo di viltà e alla fine Nabucco cede. Ma lo coglie un dubbio: che ne sarà di Fenena? Abigaille, implacabile, afferma che nessuno potrà salvare la fanciulla e gli ricorda che anch'essa è sua figlia. Ma il re la sconfessa: ella è solo una schiava. La donna trae dal seno la pergamena che attesta la sua origine e la fa a pezzi. Il re, ormai tradito e detronizzato, nell'udire il suono delle trombe che annunciano l'imminente supplizio degli ebrei chiama le sue guardie, ma esse giungono per arrestarlo obbedendo agli ordini della nuova regina. Confuso e impotente, Nabucco chiede invano ad Abigaille un gesto di perdono e di pietà per la povera Fenena.Sulle sponde dell'Eufrate gli ebrei, sconfitti e prigionieri, ricordano con nostalgia e dolore la cara patria perduta (coro: Va', pensiero, sull' ali dorate). Il Pontefice Zaccaria li incita a non piangere come femmine imbelli e profetizza una dura punizione per il loro nemico: il Leone di Giuda sconfiggerà gli assiri e distruggerà Babilonia.
Parte IV – L'idolo infranto
Nabucco, solo in una stanza della reggia, si sveglia da un incubo udendo alcune grida e, credendole segnali di guerra, chiama i suoi prodi a raccolta per marciare contro Gerusalemme. Tornato in sé all'udire altre voci che ripetono il nome di Fenena, egli si affaccia alla loggia e vede con orrore la figlia in catene. Disperato, corre alla porta, tenta invano di aprirla e infine, realizzando di essere prigioniero, cade in ginocchio e si rivolge al dio di Giuda invocando il suo aiuto e chiedendogli perdono. Come in risposta alla sua preghiera, sopraggiunge il fedele ufficiale Abdallo con un manipolo di soldati, restituendogli la spada e offrendosi di aiutarlo a riconquistare il trono.Nei giardini pensili di Babilonia passa il triste corteo degli ebrei condotti al supplizio. Zaccaria conforta Fenena incitandola a conquistare la palma del martirio; la fanciulla si prepara a godere delle gioie celesti. L'atmosfera mistica è interrotta dall'arrivo di Nabucco che, alla testa delle sue truppe, ordina di infrangere la statua di Belo. Miracolosamente, «l'idolo cade infranto da sé». Tutti gridano al «divino prodigio», Nabucco concede la libertà agli ebrei, annunzia che la perfida Abigaille si è avvelenata e ordina al popolo d'Israele di costruire un tempio per il suo Dio grande e forte, il solo degno di essere adorato. Mentre tutti, ebrei ed assiri, s'inginocchiano invocando l'«immenso Jeovha», entra Abigaille sorretta da due guerrieri: la donna confessa la sua colpa e invoca il perdono degli uomini e di Dio prima di cadere esanime. Zaccaria rivolge a Nabucco l'ultima profezia: «Servendo a Jeovha sarai de' regi il re!».
VocalitáLa parte di Abigaille, una delle più impervie che Verdi abbia composto per la voce di soprano, richiede un soprano drammatico d'agilità di inusitata potenza e flessibilità. Il ruolo impone anche difficoltà tecniche onerose (con la ricorrenza frequente di crescendo al do sopracuto da eseguire a voce spiegata), funzionali a mettere in luce il carattere iracondo della principessa.
Tra le più celebri Abigaille spiccano Maria Callas (1949) e Ghena Dimitrova.
Il ruolo di Fenena,figlia legittima di Nabucco, richiede una voce morbida e ben calibrata di timbro brunito ed è stato interpretato finora da vari mezzosoprani celebri italiani ed esteri quali Giulietta Simionato, Fiorenza Cossotto e Caterina Novak.
Preso Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Giuseppina Strepponi/Cantante-Soprano

Giuseppina Strepponi - all'anagrafe Clelia Maria Josepha Strepponi (Lodi, 6 settembre 1815Sant'Agata di Villanova sull'Arda, 14 novembre 1897) è stata un soprano italiano.
Figlia di una famiglia di musicisti, fu la seconda moglie di Giuseppe Verdi. I suoi carteggi sono tra i documenti più importanti per ricostruire la biografia verdiana.
La Strepponi studiò come soprano al Conservatorio di Milano e cantò per alcuni anni sia in Italia settentrionale che in Austria. Il suo debutto avvenne a Trieste nel 1835 (Mathilde di Shabran di Gioacchino Rossini) dove si fece notare dall'impresario Bartolomeo Merelli che la portò a Vienna e, successivamente (1838), a Bologna e a Roma, dove interpretò la Lucia di Lammermoor. Nello stesso ruolo debuttò, nel 1839, al Teatro alla Scala di Milano. Cominciò a frequentare Verdi (da poco rimasto vedovo della prima moglie Margherita Barezzi) interpretando alcune sue opere, fra cui la prima assoluta di Nabucco nel 1842 e Ernani nel 1844.
La salute malferma le impedì di proseguire la carriera di cantante. Così il suo nome resta soprattutto legato a quello di Giuseppe Verdi, con cui convisse dal 1848 al 1859, quando i due si sposarono il 29 aprile di quell'anno a Collonges-sous-Salève, piccola cittadina dell'Alta Savoia. Seguì poi il marito nella tenuta di Sant'Agata, nei pressi di Busseto.
Venne sepolta insieme a Verdi nell'oratorio della Casa di riposo per Artisti di Milano.
Preso Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Giuseppe Verdi/Compositore

Giuseppe Fortunino Francesco Verdi (Roncole Verdi, 10 ottobre 1813Milano, 27 gennaio 1901) è stato un compositore italiano, autore di melodrammi che fanno parte del repertorio operistico dei teatri di tutto il mondo.
Giuseppe Verdi nacque nelle campagne di Roncole, una frazione di Busseto (Parma), il 10 ottobre 1813 da Carlo, oste e rivenditore di generi alimentari, e Luigia Uttini, filatrice. Carlo proveniva da una famiglia di agricoltori e, dopo aver messo da parte un po' di danaro, aveva aperto una modesta osteria nella casa di Roncole, la cui conduzione alternava al lavoro dei campi. L'atto di nascita fu redatto in francese, appartenendo in quegli anni Busseto e il suo territorio all'Impero francese creato da Napoleone. Pur essendo il giovane di umile condizione sociale, riuscì tuttavia a seguire la propria vocazione di compositore grazie alla buona volontà e al desiderio di apprendere dimostrato. L'organista della chiesa di Roncole, Baistrocchi, lo prese, infatti, a benvolere e gratuitamente lo iniziò allo studio della musica e alla pratica dell'organo. Più tardi, Antonio Barezzi, un negoziante amante della musica e direttore della locale società filarmonica, convinto che la fiducia nel giovane non fosse mal riposta, divenne suo mecenate e protettore aiutandolo a proseguire gli studi intrapresi. Verdi manifestò precocemente il proprio talento musicale, come testimonia la scritta posta sulla spinetta dal cembalaro Cavalletti, che nel 1821 la riparò gratuitamente "vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi d'imparare a suonare questo istrumento". La prima formazione del futuro compositore avvenne tuttavia sia frequentando la ricca biblioteca della Scuola dei Gesuiti a Busseto, ancora esistente, sia prendendo lezioni da Ferdinando Povesi, maestro dei locali filarmonici, che gli insegnò i principi della composizione musicale e della pratica strumentale. Verdi aveva solo quindici anni quando, nel 1828, una sua sinfonia d'apertura viene eseguita, in luogo di quella di Rossini, nel corso di una rappresentazione de Il barbiere di Siviglia al teatro di Busseto.
Dopo aver inutilmente tentato di essere ammesso al Conservatorio di Milano, Verdi seguì le lezioni private del clavicembalista del Teatro alla Scala, Vincenzo Lavigna, professore di solfeggio presso lo stesso Conservatorio.
Ottenuto un contratto con l'editore Ricordi, per interessamento dell'impresario Merelli esordì come operista il 17 novembre 1839, ottenendo un incoraggiante successo con Oberto, Conte di San Bonifacio (revisione del Rocester, composto nel 1837).
In quegli anni (1836), aveva sposato la figlia del suo benefattore, Margherita Barezzi, da cui ebbe due figli che scomparvero in tenerissima età, Virginia[1] e Icilio Romano [2]. Qualche tempo più tardi, il 20 giugno 1840, perse anche la moglie, colpita da una encefalite incurabile.
Visto l'esito dell'Oberto, l'impresario della Scala Bartolomeo Merelli gli commissionò la commedia Un giorno di regno, andata in scena con esito disastroso. L'insuccesso dell'opera fu dovuto, con ogni probabilità, al dolore per la morte della moglie e dei figli, che aveva gettato il musicista nel più profondo sconforto. Fu ancora Merelli a convincerlo di non abbandonare la lirica, consegnandogli personalmente un libretto di soggetto biblico, il Nabucco, scritto da Temistocle Solera, che Verdi accettò di musicare. L'opera andò in scena il 9 marzo 1842 al Teatro alla Scala e il successo fu questa volta trionfale. Venne replicata ben 64 volte solo nel suo primo anno di esecuzione.
Con Nabucco iniziò la parabola ascendente di Verdi. Sotto il profilo musicale l'opera presenta ancora un impianto belcantistico, in linea con i gusti del pubblico italiano del tempo, ma teatralmente è un'opera riuscita, nonostante la debolezza e alcune ingenuità del libretto. Lo sviluppo dell'azione è rapido, incisivo, e tale caratteristica avrebbe contraddistinto anche la successiva, e più matura, produzione del compositore. Alcuni personaggi, come Nabuccodonosor e Abigaille, sono fortemente caratterizzati sotto il profilo drammaturgico, così come il popolo ebraico, che si esprime in forma corale, unitaria, e che forse rappresenta il protagonista vero di questa prima, significativa, creazione verdiana. Uno dei cori dell'opera, il celebre Va pensiero finì col divenire una sorta di canto doloroso o inno contro l'occupante austriaco, diffondendosi rapidamente in Lombardia e nel resto d'Italia.
Nabucco segnò l'inizio di una folgorante carriera. Per quasi dieci anni Verdi scrisse mediamente un'opera all'anno, Da I Lombardi alla prima crociata a La battaglia di Legnano, passando per I due Foscari, Giovanna d'Arco, Alzira, Attila, Il corsaro, I masnadieri, Ernani e Macbeth. Tali opere giovanili, ad eccezione delle due ultime, pur presentando talvolta al loro interno pagine di acceso lirismo e una lucida visione dei meccanismi e delle dinamiche teatrali, non danno testimonianza di un'evoluzione del maestro verso forme musicali e drammaturgiche più personali e si adagiano su schemi già sperimentati in passato e legati alla tradizione melodica italiana precedente. Furono creazioni generalmente di successo rappresentate in molti teatri italiani ed europei, ma composte spesso su commissione, con ritmi di lavoro talvolta massacranti e non sempre sorrette da una genuina ispirazione. Per tale ragione Verdi definì questo periodo della propria vita "gli anni di galera". Fra la produzione verdiana dell'epoca spiccano senz'altro, per forza drammaturgica e fascino melodico due opere, Ernani e Macbeth.
Tratta dall'omonimo dramma di Victor Hugo, l'opera Ernani fu concepita da Verdi fin dall'estate del 1843. Musicata nell'inverno successivo su libretto di Francesco Maria Piave, venne presentata al pubblico Veneziano in marzo. La vicenda, ricca di colpi di scena e incentrata su un triplice amore, diede la possibilità a Verdi di approfondire la caratterizzazione di alcuni personaggi da un punto di vista drammaturgico e di iniziare ad affrancarsi dall'ingombrante presenza, sotto il profilo musicale, dei grandi musicisti romantici italiani dei primi decenni dell'ottocento (Gioacchino Rossini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti).
Macbeth, presentata al Teatro La Pergola di Firenze nel 1847, è con ogni probabilità il capolavoro giovanile di Verdi. Musicata su libretto di Francesco Maria Piave, si ispira alla tragedia omonima di William Shakespeare. Negli ultimi decenni è stata sottoposta a un intenso processo di rivalorizzazione, anche se generalmente viene rappresentata nella sua veste definitiva del 1865, riveduta e ampliata dal compositore bussetano. L'opera, dalle potenti connotazioni drammatiche, si differenzia dalle precedenti per un maggiore approfondimento psicologico dei protagonisti della tragedia (Macbeth e Lady Macbeth), preannunciando, col suo debordante lirismo, la trilogia popolare di un Verdi entrato nella sua piena maturità espressiva.
Nel 1849, venne presentata al pubblico napoletano Luisa Miller, opera meno affascinante di Macbeth, ma importante per l'evoluzione dello stile musicale e della drammaturgia verdiana. L'orchestrazione si fa più raffinata che in passato, il recitativo più incisivo e il compositore scava nella psiche della protagonista come mai aveva forse fatto prima di allora. Anche nella creazione successiva, Stiffelio, rappresentata per la prima volta a Trieste nel 1850, Verdi portò avanti quel lavoro di caratterizzazione psicologica del personaggio centrale, iniziato con Macbeth e proseguito in Luisa Miller. L'opera presentava però alcune debolezze strutturali, dovute in parte ai drastici tagli operati dalla censura austriaca, che non le permisero di imporsi al grande pubblico italiano ed europeo. Ancor oggi Stiffelio è rappresentato raramente.
Un anno più tardi, con Rigoletto (Venezia, 1851), Verdi si sarebbe tuttavia imposto come il massimo operista italiano del suo tempo. Rigoletto fu seguito da altri due capolavori assoluti, Il trovatore e La traviata, che formano con esso la cosiddetta "trilogia popolare", o (più impropriamente) "romantica", del compositore bussetano. Tratto da una pièce di Victor Hugo, Le roi s'amuse, Rigoletto è un'opera profondamente innovativa, sotto il profilo drammaturgico e musicale. Per la prima volta al centro della vicenda di un'opera drammatica troviamo un buffone di corte, cioè un personaggio che, utilizzando una terminologia moderna, potremmo definire un "emarginato sociale". La dimensione emotiva dei protagonisti è colta da Verdi magistralmente attraverso una partitura messa al servizio del dramma e di straordinaria bellezza melodica. Azione e musica sembrano rincorrersi e sostenersi mutuamente in una vicenda che ha un ritmo di sviluppo rapido, senza cedimenti né parti superflue.
Il miracolo si ripeté con Il trovatore (Roma, 1853), opera dall'impianto più tradizionale, ma altrettanto affascinante. Dramma di grande originalità oltretutto, perché si struttura su una vicenda povera di avvenimenti e dove i protagonisti o sono proiettati verso un futuro gravido di incognite, o immersi nei ricordi di un passato lontano che ne condiziona l'azione e che li sospinge verso un destino di morte ineluttabile. Con quest'opera Verdi scrisse alcune fra le sue pagine più alte, ricche di patetismo e suggestioni tardo-romantiche che sarebbero nuovamente emerse pochi mesi più tardi, nella terza opera, in ordine cronologico, della trilogia: La traviata.
La traviata (Venezia, 1853) ruota attorno alla storia di una cortigiana travolta dall'amore per un giovane di buona famiglia. Più che su alcuni accadimenti esteriori, la vicenda viene vissuta all'interno della coscienza della protagonista la cui natura umana è scandagliata da Verdi in tutte le sue minime sfumature. Le scelte stilistiche del grande compositore risultano sempre adeguate alla complessa drammaturgia dell'opera e si traducono in un raffinamento orchestrale e in una complessità armonica la cui modernità non venne all'epoca pienamente recepita. Oggigiorno alcuni critici considerano La Traviata una vera e propria pietra miliare nella creazione del dramma borghese degli ultimi decenni dell'ottocento e ne evidenziano l'influenza su Puccini e gli autori veristi suoi contemporanei[3].
Con la "trilogia popolare", Verdi si era imposto come il più celebre musicista del suo tempo. Eugène Scribe, all'epoca librettista dell'Opéra di Parigi, propose al compositore un testo in francese per un'opera da rappresentare nella capitale galla. Non senza esitazioni, Verdi accettò. Ne uscì un'opera, Les vêpres siciliennes (1855), di notevole impatto musicale ma poco convincente sotto il profilo drammaturgico. L'opera, inquadrabile nel genere del Grand opéra, con spettacolari messe in scena, coreografie e movimenti di massa, poco si addiceva al genio verdiano, approdato con la Traviata a un tipo di drammaturgia più intimista, psicologica. Maggior successo avrebbe avuto, pochi mesi più tardi, la versione italiana dell'opera, I vespri siciliani (Parma, 1855), con la quale si sono cimentati, nel secondo dopoguerra alcuni fra i maggiori direttori d'orchestra e interpreti della grande lirica internazionale (celebre la rappresentazione scaligera di De Sabata-Callas del 1951).
In quegli anni riaffiorò prepotente in lui, ormai compositore affermato, ricco e noto al pubblico internazionale, il fascino della campagna[4]. Pertanto, nel maggio 1848 Verdi acquistò dai signori Merli la villa di Sant'Agata, una frazione di Villanova sull'Arda (provincia di Piacenza), dove diventò anche consigliere comunale.[5] Qui si stabilì tre anni più tardi, insieme alla sua nuova compagna, il soprano Giuseppina Strepponi, che sposò nel 1859. La fattoria finì con l'assorbire gran parte del tempo del Maestro, almeno tutto quello che la musica gli lasciava libero e così, via via, col passare degli anni, l'amore per la campagna diventò, per lui, quasi una mania[6]. Le lettere indirizzate al fattore sono una riprova di quanto il "cigno di Busseto" fosse esperto in fatto di pioppicultura, di allevamento di cavalli, di irrigazione dei campi, di enologia. Quanto poi fosse competente e si tenesse al corrente delle ultime novità si può dedurre da una lettera, datata marzo 1888 ed indirizzata ai fratelli Ingegnoli che gli avevano mandato in omaggio sei cachi di cui avevano appena iniziato, in Italia, la coltivazione; Verdi se ne mostrò subito entusiasta, ausLa seconda metà degli anni cinquanta dell'Ottocento, furono, per il compositore, anni di travaglio: Verdi poteva finalmente comporre senza fretta, ma l'intero mondo musicale stava lentamente cambiando. Sui palcoscenici italiani, il Simon Boccanegra, presentato al pubblico veneziano nel 1857, non piacque. Il dramma, prettamente politico, non aveva quei risvolti sentimentali che tanto appassionavano il pubblico del tempo e dovette attendere quasi cinque lustri e una rielaborazione radicale (cui collaborò anche Arrigo Boito) per imporsi definitivamente nel repertorio lirico italiano ed internazionale (1881).
Due anni più tardi vedeva la luce, dopo varie vicissitudini prima con la censura napoletana (che in pratica rese impossibile la sua rappresentazione), poi con quella romana, Un ballo in maschera (Roma, 1859), opera di successo nella quale Verdi mescolò, con sapiente dosaggio, elementi procedenti dal teatro tragico e da quello leggero. Creazione musicalmente e drammaturgicamente raffinata, dallo stile elegante e delicato, in Un ballo in maschera affiora un'umanità vagamente inquieta, non esente da ambiguità, che trova nella relazione fra i due protagonisti i suoi momenti liricamente più elevati.
Un interessante connubio di elementi comici e tragici (con decisa prevalenza di questi ultimi), si realizza ne La forza del destino (San Pietroburgo, 1862). L'opera possiede un indubbio vigore musicale anche se appare in alcuni punti meno compatta, meno unitaria della precedente sotto il profilo teatrale. Ne La forza del destino Verdi riesce tuttavia ad elaborare un linguaggio ancor più realistico che in passato, anticipando l'opera successiva, il Don Carlos, presentato al pubblico parigino nel 1867.
Don Carlos è oggi considerato uno dei grandi capolavori verdiani. In quest'opera il compositore, pur facendo proprie alcune impostazioni del Grand opéra (fra cui l'articolazione in cinque atti, l'inserimento di un balletto fra il terzo e quarto atto e la creazione di alcune scene particolarmente spettacolari), riesce a scavare in profondità nella psicologia dei protagonisti, offrendoci una poderosa raffigurazione del dramma umano e politico che sconvolse la Spagna nella seconda metà del XVI secolo e che ruota attorno alla logica spietata della ragion di stato.
Tale periodo di massima maturazione umana ed artistica culminò con Aida, commissionata dal Kedivè d'Egitto e andata in scena la vigilia di Natale del 1871. Aida costituisce un ulteriore, grande passo in avanti verso la modernità. Il quasi completo abbandono dei pezzi a forma chiusa, l'uso ancor più accentuato che in passato di temi e motivi musicali ricorrenti potrebbero fare accostare tale opera al dramma wagneriano. In realtà Verdi aveva seguito un percorso del tutto autonomo in Aida, opera fondamentalmente intimista e poggiata su una vocalità dalle caratteristiche prettamente italiane. Ricordiamo a questo proposito che la prima opera wagneriana ad essere rappresentata in Italia fu il Lohengrin a Bologna, e ciò avvenne dopo la prima esecuzione dell'Aida. Verdi era già al corrente di alcune innovazioni musicali del grande compositore tedesco[8] ma è indubbio che Wagner fu conosciuto dal grande pubblico italiano e iniziò a esercitare una decisa influenza sugli operisti italiani, dopo tale data, non prima.
Dopo Aida, Verdi decise di ritirarsi a vita privata. Iniziò così il periodo del grande silenzio (interrotto dalla "Messa di Requiem" scritta in occasione della morte di Alessandro Manzoni), durante il quale il rude contadino di Roncole di Busseto meditò sui grandi mutamenti artistici in corso nel mondo. A farlo uscire dall'isolamento fu Arrigo Boito, il compositore scapigliato che lo aveva pubblicamente offeso nel 1863 ritenendolo causa del provincialismo e dell'arretratezza della musica italiana del tempo.
Con gli anni Boito aveva compreso che solo Verdi avrebbe potuto portare l'Italia musicale al passo con l'Europa e, col fondamentale aiuto dell'editore Giulio Ricordi, si riconciliò con lui. Primo frutto della collaborazione fra il grande musicista e l'ex scapigliato fu il rifacimento del Simon Boccanegra rappresentato con grande successo al Teatro alla Scala di Milano nel 1881. Seguirono a distanza di alcuni anni due opere memorabili: Otello e Falstaff, entrambi frutto delle fatiche letterarie di Boito, che si occupò della stesura dei rispettivi libretti, e di Verdi che ne compose la musica. Si tratta di due capolavori assoluti del grande bussetano, ormai prossimo alla concezione wagneriana del dramma ma senza pagare un solo tributo allo stile del suo coetaneo d'oltralpe. In Boito Verdi poté trovare un collaboratore prezioso, che seppe essere all'altezza delle proprie concezioni drammaturgiche, un intellettuale di notevole spessore culturale, duttile nella versificazione e a sua volta musicista, ovvero capace di pensare la poesia in funzione della musica.
Le due opere, entrambe rappresentate alla Scala, ebbero esiti diversi. Se Otello incontrò immediatamente i gusti del pubblico, affermandosi stabilmente in repertorio, Falstaff lasciò, in un primo momento, perplesso il grande pubblico verdiano e, più in generale, i melomani italiani. Per la prima volta dopo lo sfortunato Un giorno di regno infatti, l'anziano Verdi si cimentava nel teatro comico, ma con la sua estrema commedia aveva accantonato in un sol colpo tutte le convenzioni formali dell'opera italiana, dando prova di una vitalità artistica, di uno spirito aperto alla modernità e di un'energia creativa sorprendenti. Falstaff fu sempre amato dai compositori ed esercitò un influsso decisivo sui giovani operisti, da Puccini agli autori della generazione dell'Ottanta.
Verdi trascorse gli ultimi anni tra Sant'Agata e Milano. Nel 1897 la moglie Giuseppina morì, lasciandolo solo nella sua lunga vecchiaia. Nel 1899 istituì l'Opera Pia - Casa di Riposo per i Musicisti, mentre designò erede universale delle sue ingenti ricchezze una cugina di Busseto, Maria Verdi. Molti furono però i legati destinati a vari enti sociali.
Verdi morì a Milano in un appartamento dove era solito alloggiare dal 1872 al Grand Hotel et De Milan [9] il 27 gennaio 1901, a 87 anni. Era venuto nella città lombarda per trascorrervi l'inverno, come faceva da tempo. Colto da malore spirò dopo sei giorni di agonia. Lasciò istruzioni per i suoi funerali: si sarebbero dovuti svolgere all'alba, o al tramonto, senza sfarzo né musica. Volle esequie semplici, come semplice era sempre stata la sua vita. Le ultime volontà del compositore vennero rispettate, ma non meno di centomila persone seguirono in silenzio il feretro. Nei giorni che precedettero la morte di Verdi via Broletto e le strade circostanti vennero cosparse di paglia affinché lo scalpitio dei cavalli e il rumore delle carrozze non ne disturbassero il riposo.
Tra le cerimonie svoltesi in tutta Italia per commemorare la morte di Verdi, particolarmente suggestiva fu quella che si svolse, alla presenza del Duca di Genova, nel teatro greco di Siracusa. Fu stampata anche una cartolina commemorativa in occasione del luttuoso evento.
Verdi si cimentò anche al di fuori dal campo operistico. Dopo aver ricevuto la formazione di maestro di cappella - secondo la prassi italiana dell'epoca - scrisse molta musica sacra e strumentale, destinata per lo più alla locale Società filarmonica. Ricordiamo di questo periodo (1836-1839) un Tantum ergo, che il compositore giudicò molto severamente negli anni della propria maturità. Dall'Oberto (1839)abbandonò, per oltre vent'anni, i generi non operistici, con l'eccezione della musica da camera (fra cui alcune romanze da salotto).
Nel 1862 compose, - per l'Esposizione Universale di Londra, l'Inno delle Nazioni su testo di Boito. Molti anni più tardi, Verdi scrisse una Messa di requiem per la morte di Alessandro Manzoni (rappresentata nella Chiesa di San Marco a Milano il 22 maggio 1874). In realtà già dopo la morte di Rossini (1868), Verdi aveva proposto a ben undici compositori italiani del tempo, come omaggio collettivo al compositore pesarese, un Requiem mai realizzato. Per sé aveva riservato l'ultimo brano, quel Libera me, Domine che avrebbe recuperato successivamente, inserendolo, con alcuni cambiamenti, nel Requiem per Manzoni.
Sempre nel campo della musica sacra, Verdi compose un Pater noster, su testo in volgare di Dante, pubblicato nel 1880 e i Quattro pezzi sacri, composti nella tarda maturità e pubblicati nel 1898: Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla Vergine e Te Deum.
Di Verdi, nel genere cameristico, ricordiamo alcune opere giovanili come le Sei romanze (ed. 1838) e Album di sei romanze (ed. 1845) per voce e pianoforte e il Quartetto per archi in mi minore (1873).
Verdi partecipò attivamente alla vita pubblica del suo tempo. Fu, come si è accennato, un patriota convinto, anche se nell'ultima parte della sua vita traspare, dall'epistolario e dalle testimonianze dei suoi contemporanei, una disillusione, un disincanto, nei confronti della nuova Italia unita, che forse non si era rivelata all'altezza delle proprie aspettative. Fu sostenitore dei moti risorgimentali (pare che durante l'occupazione austriaca la scritta W V.E.R.D.I. fosse letta come Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia). Il Paese lo volle, quasi a viva forza, membro del primo parlamento del Regno d'Italia (1861-1865), eletto come Deputato nel Collegio di Borgo San Donnino, l'attuale Fidenza, e, successivamente, senatore a vita dal 1874. Fu anche consigliere provinciale di Piacenza. Rappresentò, e continua a rappresentare per molti italiani la somma di tutti quei simboli che li hanno guidati all'unificazione nazionale contro l'oppressione straniera.
Per lungo tempo Verdi è stato considerato un tranquillo uomo di campagna toccato dal genio, un uomo rustico e schietto, integerrimo, e di rara onestà intellettuale. Tale immagine si univa a quella del patriota ardente, che a giusto titolo sedette come deputato nel primo parlamento dell'Italia unita (1861). Aspetti questi, facenti sicuramente parte della propria personalità ma che da soli non possono spiegare la grandezza dell'artista e delle sue immortali creazioni. In realtà Verdi fu un operista attento alle grandi correnti di pensiero che percorrevano l'Italia e l'Europa del tempo, pronto a mettersi in discussione e nel contempo profondamente conscio del proprio valore. Sempre aggiornatissimo, alla ricerca di nuovi soggetti cui ispirare le proprie opere, fu un grande frequentatore della capitale artistica dell'Europa del tempo, Parigi. Il suo primo viaggio nella Ville Lumière risale al 1847, l'ultimo, al 1894, in occasione dell'allestimento dell'Otello che egli stesso volle seguire personalmente. Compositore meticoloso, dotato di un'eccezionale sensibilità drammaturgica che aveva ulteriormente affinato con gli anni, Verdi fu per tutta la sua vita uno sperimentatore, proteso verso traguardi sempre più alti e dotato di un senso critico fuori del comune, che gli permise di andare incontro ai gusti di un pubblico sempre più esigente pur senza mai rinunciare ai propri convincimenti di uomo ed artista. L'enorme epistolario che ci ha lasciato, oltre a rappresentare un affascinante affresco di quasi settant'anni di storia italiana (dalla metà degli anni trenta dell'Ottocento sino alla fine del secolo), è uno strumento per conoscere un Verdi "inedito", orgoglioso della propria estrazione contadina, ma allo stesso tempo uomo fondamentalmente colto e osservatore fine della realtà e dell'ambiente che lo circondavano, personaggio inquieto e protagonista carismatico di un'epoca memorabile. Stimato e amato da un ampio pubblico internazionale è, con Giacomo Puccini, l'operista più rappresentato al mondo, occupando un posto privilegiato nell'olimpo dei più grandi creatori musicali di tutti i tempi.
Preso da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il Passato Remoto/Grammatica

Anche il passato remoto descrive un’azione conclusa avvenuta nel passato, o, per meglio dire, un’azione del passato che il parlante avverte come conclusa. Come già segnalato dallo stesso nome (remoto = lontanissimo nel tempo), si ricorre a questo tempo verbale per esprimere fatti avvenuti molto tempo addietro:
Nel 1988 Marina finì l’Università e poco dopo iniziò a lavorare.
Si ricordi che, a differenza del passato prossimo, il passato remoto è un tempo
che esprime sempre un fatto avvenuto nel passato rispetto a chi parla (mentre si è visto che almeno inun contesto informale il passato prossimo può riferirsi al presente futuro);
che serve per esprimere un passato privo di attualità psicologica per il parlante.
Si veda al proposito il seguente esempio:
Il 18 aprile 1993 i cittadini italiani approvarono il referendum che introduceva il sistema uninominale maggioritario al Senato.
Visto che si parla di un evento risalente a più di dieci anni fa, si potrebbe pensare che in questo esempio sia lecito solo l’uso del passato remoto. Siccome però il sistema di elezione in Italia fino al giorno d’oggi non è più cambiato e gli effetti della scelta del ’93 perdurano nel presente, si potrebbe esprimere questa frase anche con il passato prossimo (i cittadini italiani hanno approvato): il tempo verbale scelto segnalerebbe l’attualità che l’evento, pur lontano, tuttora ha per la persona che parla.Ma la scelta del passato remoto nell’esempio proposto veicola un altro ordine di informazioni: il fatto è successo molto tempo fa; il parlante ha avuto il tempo, per così dire, di “metabolizzarlo”, di viverlo e di rifletterci su; adesso è pronto per archiviare psicologicamente l’evento del ‘93 sotto un’ipotetica rubrica “Eventi del passato”. La scelta del sistema uninominale è per il parlante un fatto definitivamente appartenente alla “storia”, senza più attualità psicologica nella sua vita attuale.
Preso da l´internet

Il Passato Remoto/Grammatica

Il passato remoto è una forma verbale del modo indicativo. Normalmente, il passato remoto viene usato per indicare avvenimenti considerati come compiuti in un passato considerato psicologicamente come lontano e povero di rapporti espliciti con il presente (inteso come il momento dell'enunciazione), il che lo distingue dal passato prossimo.
Coniugazione del passato remoto
Questa forma verbale si coniuga sostituendo le desinenze dell'infinito (-are, -ere, -ire) con quelle previste nel sistema verbale italiano per il presente nelle tre coniugazioni:
1. cantai, cantasti, cantò, cantammo, cantaste, cantarono;
2. potei, potesti, poté, potemmo, poteste, poterono;
3. dormii, dormisti, dormì, dormimmo, dormiste, dormirono.
I verbi della prima e della terza coniugazione (-are e -ire) sono in genere regolari.
I verbi della seconda coniugazione (-ere) sono in genere irregolari, o possono avere, in aggiunta, una coniugazione alternativa che li avvicina ai verbi irregolari: ricevetti, ricevesti, ricevette, ricevemmo, riceveste, ricevettero.
Se un verbo è irregolare, la sua coniugazione completa sarà un alternarsi di forme irregolari e regolari a seconda della persona. Sono regolari la seconda persona (singolare e plurale) e la prima persona plurale, mentre sono irregolari le altre (es.: avere: ebbi, avesti, ebbe, avemmo, aveste, ebbero). Diversi verbi irregolari possono essere classificati in gruppi a seconda della terminazione della radice. Si tratta di fenomeni relativamente semplici cui si può ricondurre un discreto numero di forme. Il discorso vale soprattutto per le forme irregolari che terminano, alla prima persona, in --si (piansi, risi e simili).
· Ad esempio, per i verbi che terminano in -cere (vincere) si ha: vinsi, vincesti, vinse, vincemmo, vinceste, vinsero. Similmente, per i verbi in -gere, come piangere avremo: piansi, piangesti, pianse, piangemmo, piangeste, piansero; i verbi in -ggere (reggere) si coniugano così: ressi , reggesti, resse, reggemmo, reggeste, ressero.
· I verbi che terminano in -dere daranno risi, ridesti, rise, ridemmo, rideste, risero; per i verbi che terminano in -ndere si ha normalmente: spesi, spendesti, spese, spendemmo, spendeste, spesero.
· Per il verbo spegnere e gli altri che terminano in -gnere le forme sono: spensi, spegnesti, spense, spegnemmo, spegneste, spensero; analogamente, per i verbi in -gliere si ha: scelsi, scegliesti, scelse, scegliemmo, sceglieste, scelsero.
· Esistono comunque dei meccanismi devianti che complicano notevolemente l'apprendimento di questa forma verbale; basti pensare al verbo perdere, per il quale sono possibili le forme persi, ma anche perdetti e perdei; il verbo credere è regolare; il verbo succedere è regolare o irregolare a seconda del suo significato, eccetera.
Tra gli altri fenomeni, uno dei più vistosi è quello del raddoppiamento della consonante finale della radice: volli, caddi, bevvi, tenni, ruppi, seppi, eccetera.
Il verbo essere è caratterizzato da un meccanismo proprio: fui, fosti, fu, fummo, foste, furono.
Si ricorda, per gli altri casi, l'uso dei coniugatori automatici.
Cenni storici
Il passato remoto corrisponde alle varie forme di perfectum semplice che le lingue romanze hanno ereditato dal latino. Dato che in latino classico la forma concorrente, ossia il passato prossimo, non esisteva ancora, era un tempo di largo uso.
Tra i mutamenti fonologici che hanno caratterizzato il passaggio dal perfectum latino alla forma del passato remoto italiano, si ricordano i seguenti:
La forma latina cantavi alla prima persona ha subito la caduta della -v- intervocalica, un fenomeno abbastanza diffuso: il risultato è stato cantai. Vale un discorso analogo per le altre persone (per esempio da cantavisti è risultato cantasti).
La terza persona cantò deriva da cantaut ed è un assimilazione tra le due vocali della desinenza (Bruni). Anche la caduta della consonante finale -t è un fenomeno normalissimo per gli sviluppi dell'italiano.
La tendenza del passato remoto ad essere usato meno durante il passare dei secoli è un fenomeno controverso. A questo proposito si ricorda soltanto il fatto che ancora nel Medioevo, il passato remoto conosceva degli usi che risulterebbero inaccettabili nella grammatica dell'italiano moderno:
« Una montagna v'è che già fu lieta
d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta. »
(Dante, Inferno, Canto XIV)
« Uno (...) che si chiamò Fresco da Celatico, aveva una sua nepote chiamata per vezzi Cesca »
(Giovanni Boccaccio, Decameron, sesta giornata, ottava novella)
In esempi simili a quelli qui proposti, che illustrano un uso particolare del verbo chiamarsi, la lingua standard prevede infatti l'uso dell'imperfetto (si chiamava). Questo fenomeno, un tempo assai frequente, non è mai stato completamente chiarito.
L'uso: passato remoto e passato prossimo
Per approfondire, vedi la voce imperfetto indicativo.
Si illustra in quanto segue l'uso del passato remoto in relazione al passato prossimo. Per quanto riguarda le questioni inerenti all'imperfetto, si rimanda alla voce dedicata a questa forma verbale.
Passato vicino e passato lontano
La differenza tra queste due forme verbali è sottile e quasi sempre il passato remoto può essere sostituito dal passato prossimo senza il pericolo di produrre enunciati veramente inaccettabili.[1] Non vale necessariamente il discorso contrario, dato che eventi che hanno un rapporto specifico con il presente non possono essere descritti usando il passato remoto. Per questo, l'enunciato
Non mangio niente perché cenai già, non è considerato come accettabile nella grammatica dell'italiano standard: infatti l'effetto dell'azione sta ancora perdurando nel presente, mentre il passato remoto indica in qualche modo una sorta di lontananza dell'evento.
Non sarà mai possibile stabilire una regola generale che stabilisca la quantità di tempo trascorsa per poter definire se l'evento è da considerarsi come "prossimo" o "remoto", dato che ciò dipende dalla distanza psicologicamente percepita. Come ricordano diversi studiosi (vedi Weinrich), in passato diversi grammatici si illudevano che fosse realistico attenersi alla cosiddetta regola delle 24 ore, secondo la quale gli eventi antecedenti a questo lasso di tempo dovevano essere indicati con il passato remoto. In realtà, questa teoria era destinata a fallire.
Tenendo sempre conto del contesto, si preferisce il passato prossimo per eventi considerati in qualche modo ancora attuali. In un altro contesto, il passato remoto può caratterizzare i medesimi eventi in maniera diversa: anche se essi possono avere un qualche riferimento al presente, un tale riferimento non viene in nessun modo indicato (come si può osservare nella seguente coppia di enunciati):
La guerra del golfo è stata un evento che anche oggi fa parlare molto di sé.
La guerra del golfo fu causata da diverse circostanze.
Il nome delle due forme verbali, comunque, continua a suggerire qual è la differenza principale che le caratterizza: mentre il passato prossimo si riferisce piuttosto ad eventi considerati psicologicamente come vicini, il passato remoto è la forma del passato percepito come psicologicamente lontano.
L'opposizione tra vicino e lontanto può peraltro comparire in enunciati in cui vengono usati tutti e due i tempi:
Ieri, il parlamento ha abolito la legge che fece parlare tanto di sé prima della guerra.
Altre differenze tra passato prossimo e remoto
Tra le due forme verbali intercorrono comunque differenze di varia natura; esse vanno ben oltre la distinzione tra vicino e lontano:
Registro: Il passato prossimo è tendenzialmente preferito nella lingua di registro meno controllato, dunque nella lingua parlata e nello scritto meno impegnato stilisticamente. Il passato remoto si incontra più spesso nella lingua scritta che in quella parlata, a meno che il contributo orale non sia accuratamente pianificato e di alto registro.
Fattori storici: Il passato prossimo, nel corso dei secoli, ha finora mostrato una certa tendenza a sostituire il passato remoto, per cui quest'ultimo assume gradualmente connotati, anche negativi, di vetustà o antichità. Nel parlato, soprattutto alla seconda persona, può accadere che lo si usi solamente per scherzare. D'altro canto, l'uso alla prima ed alla terza persona nella lingua scritta di registro sostenuto (articolo giornalistico, lavoro scolastico, lingua parlata ben pianificata) non è mai stato seriamente messo in discussione.
Varietà regionali: Il passato prossimo viene usato più spesso in Italia del Nord, dove accade che il parlante usi il passato prossimo in contesti dove le grammatiche tradizionali prescrivevano l'uso del passato remoto. Nell'Italia del Sud accade spesso il contrario.
Flessibilità: Il passato prossimo è più universale, meno marcato dal punto di vista linguistico e viene generalmente preferito anche per questo.
La molteplicità di differenze tra i due tempi, considerabili sotto diverse prospettive, lascia al parlante un certo margine di scelta.
Preso da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il Passato Remoto

Il Passato Remoto e` un tempo molto simile al Passato Prossimo. E` usato per descrivere eventi molto lontani nel tempo (per esempio eventi storici), o eventi che in qualche modo non "sentiamo" vicini a noi. Per eventi recenti, gli italiani usano normalmente il P.Prossimo. Per esempio:
Un mese fa sono andato con i miei amici a Cancun.
I gladiatori combatterono nel Colosseo.
C'e` anche una differenza georgrafica nell'uso del Passato Remoto. E` piu` comune nel Sud Italia e in Toscana. E` abbastanza raro nel Nord Italia.
Il Passato Remoto e` anche piu` comune nell'uso letterario. E` una forma molto elegante e "nobile", perche` deriva direttamente dal latino antico (ecco perche` ci sono tante forme irregolari :-(
Il Passato Prossimo e` sicuramente molto piu` usato nella conversazione quotidiana.

martes, 19 de agosto de 2008

Henri de Toulouse-Lautrec (Pittore)

Henri de Toulouse-Lautrec (Albi, 24 novembre 1864 – Saint-André-du-Bois, 9 settembre 1901) è stato un pittore francese, tra le figure più significative dell'arte del tardo Ottocento.
Biografia
Giovinezza
Henri Marie Raymond de Toulouse-Lautrec Monfa fu il primogenito del conte Alphonse e della contessa Adèle de Toulouse-Lautrec. L'aristocratica famiglia dei Toulouse-Lautrec risentiva ancora dell'effetto dei matrimoni tra consangunei contratti nelle precedenti generazioni, gli stessi conti erano cugini, ed Henri soffrì per questo di diverse malattie genetiche. Un altro fratello nacque nel 1867, ma morì l'anno seguente.
A 13 e a 14 anni, Henri si fratturò entrambi i femori. La frattura non guarì mai e le sue gambe smisero di crescere, così che da adulto rimase alto solo 1,52 m, avendo sviluppato un busto normale ma mantenendo le gambe di un bambino (0,70 m). D'altro canto i suoi genitali erano ipertrofici, come provano alcune foto.
Fisicamente inadatto a partecipare alla maggior parte delle attività solitamente intraprese dagli uomini della sua età, Toulouse-Lautrec si immerse completamente nella sua arte. Divenne un importante artista post-impressionista, illustratore e litografo e registrò nelle sue opere molti dettagli dello stile di vita bohèmien della Parigi di fine '800. Toulouse-Lautrec contribuì anche con un certo numero di illustrazioni per la rivista Le Rire, durante la metà degli anni '90.
Parigi
Fu definito "l'anima di Montmartre", il quartiere parigino dove abitava. Rappresentò spesso la vita al Moulin Rouge e in altri locali e teatri di Montmartre e di Parigi, e, in particolare, nei bordelli che frequentava costantemente (a quanto sembra, contrasse la sifilide da Rosa la Rouge, che viveva in un bordello). Visse tra le prostitute per lunghi periodi, sentendosi un emarginato come loro, e divenne il loro confidente e il testimone della loro vita più intima.Alcolista per la maggior parte della sua vita, finì in un manicomio poco prima della sua morte. Morì per complicazioni dovute all'alcolismo e alla sifilide nella tenuta familiare Malromé, nei pressi di Saint-André-du-Bois, pochi mesi prima del suo trentasettesimo compleanno. È sepolto a Verdelais, nella Gironda, a pochi chilometri dal suo luogo di nascita.
I manifesti pubblicitari
Lautrec è famoso anche per aver disegnato molti manifesti pubblicitari di locali parigini, che nel tempo hanno reso celebre la loro immagine. Tra i locali ricordiamo: Divan Japonais, Moulin Rouge: Bal Tous les soirs, Aristide Bruant all'Ambassadeurs oppure per riviste come: La revue blanche, L'estampe originale.
Film
Su Toulouse-Lautrec è stato girato il film del regista Roger Planchon, Lautrec (1998).
Opere
Al circo Fernando (1888)
Ballo al Moulin Rouge (1889-1890)
Aristide Bruant all'Ambassadeurs (1892)
Al Moulin Rouge (1892-1895)
Al Salon di rue des Moulins (1894-1895)
Salottino privato (1899)
La toilette (1896)
Musei
Elenco dei musei che espongono opere dell'artista:
Art Institute di Chicago
Collezione Bührle di Zurigo
Guggenheim Museum di New York
Musée d'Orsay di Parigi
Musée Toulouse-Lautrec di Albi
Museum of Art di Baltimora
Ny Carlsberg Glyptotek
Wadsworth Atheneum di Hartford .
Preso da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Che cosa sto leggendo adesso? Giulio Cesare (Shakespeare)

Il Giulio Cesare è una tragedia di William Shakespeare scritta probabilmente nel 1599.
La tragedia, basata su eventi storici, parla della cospirazione e dell'assassinio del dittatore della Repubblica Romana Giulio Cesare.
L'opera è la prima delle cinque grandi tragedie di Shakespeare (le altre sono l'Amleto, l' Otello, il Re Lear e il Macbeth).
Giulio Cesare
Sono sorte numerose discussioni circa il protagonista della commedia. Alcuni ritengono sia Cesare, causa di tutta l'azione e centro di ogni discussione. altri invece ritengono sia Bruto, e il dramma è costituito dal suo conflitto psicologico tra l'onore, il patriottismo e l'amicizia.
La scena dell'assassinio di Giulio Cesare è forse la parte più conosciuta della tragedia, insieme al discorso di Marco Antonio.
Dopo aver ignorato l'avvertimento dell'indovino e le premonizioni della moglie, Cesare viene assassinato durante una riunione del Senato. Il primo a colpirlo è Casca, l'ultimo è Bruto. Alle famose parole di Cesare "Tu quoque, Brute, fili mi!" Shakespeare aggiunge "Allora cadi, o Cesare!", suggerendo così che Cesare si rifiuta di sopravvivere ad un tale tradimento da parte di una persona in cui egli aveva riposto la sua fiducia.
Contesto elisabettiano
La maggior parte dei critici ritiene che l'opera rifletta il clima di ansietà dell'epoca, dovuto al fatto che la regina Elisabetta I si era rifiutata di nominare un successore, il che avrebbe potuto portare, dopo la sua morte, ad una guerra civile simile a quella scoppiata a Roma.
Trama
L'inizio del racconto si svolge prima a Roma e in secondo luogo in Grecia (Filippi). Bruto, i cui antenati sono celebri per aver cacciato da Roma Tarquinio il Superbo (il fatto è descritto ne Il ratto di Lucrezia), è il figlio di Cesare. Bruto si lascia convincere ad entrare in una cospirazione, ordita da alcuni senatori romani tra cui Cassio, per impedire che Cesare trasformi la Repubblica romana in una monarchia. Dapprima Bruto si oppone a Cassio, ma poi, visto che la congiura acquista un crescente favore popolare, Bruto cambia idea e si unisce ai congiurati.Cesare nel frattempo in un suo viaggio in Egitto si innamora follemente di Cleopatra e si uniscono in amore dando alla luce un figlio: Cesarione. Ritornato a Roma un indovino dice a Cesare di guardarsi dalle Idi di marzo, ma egli ignora l'avvertimento, e viene assassinato proprio quello stesso giorno. Dopo la morte di Cesare, comunque, un altro personaggio compare sullo sfondo come amico di Cesare: si tratta di Marco Antonio che, tramite il celeberrimo discorso Amici, Romani, cittadini, prestatemi orecchio, muove l'opinione pubblica contro gli assassini di Cesare. Dopo la morte di Cesare, Bruto attacca Cassio accusandolo di regicidio in cambio di denaro; i due in seguito si riconciliano, ma mentre entrambi si preparano alla guerra contro Marco Antonio e Ottaviano, lo spettro di Cesare appare a Bruto, annunciandogli la sua prossima sconfitta ("Ci rivedremo a Filippi" - atto IV, scena III).Durante la battaglia le cose si mettono male per i cospiratori e sia Bruto che Cassio decidono di suicidarsi piuttosto che essere fatti prigionieri. La tragedia termina con un accenno alla futura frattura dei rapporti tra Marco Antonio e Ottaviano, che sarà sviluppata nella tragedia Antonio e Cleopatra. nell'ultima parte si accenna alla ascesa al potere di Ottaviano e la sconfitta di Marco Antonio ad Azio nel 31a.C. Dopo essere stato sconfitto Marco Antonio bestemmierà contro Dio.
Testo
La tragedia venne pubblicata per la prima volta nell'In folio del 1623.
Fonti
le fonti dell'opera possono essere fatte risalire alla traduzione di Thomas North della Vita di Cesare e della Vita di Bruto, contenute nelle "Vite parallele" di Plutarco.
Film
Giulio Cesare 1950, con Harold Tasker nel ruolo di Giulio Cesare
Giulio Cesare 1953, con Marlon Brando nel ruolo di Antonio
Giulio Cesare 1970, con Charlton Heston nel ruolo di Antonio
Blackadder the Third, 1985
Importanti riproduzioni teatrali
1599: Un viaggiatore svizzero, Thomas Platter, ha scritto di aver visto a Londra un'opera teatrale riguardante Giulio Cesare il 21 settembre 1599 - questa era probabilmente l'originale riproduzione dell'opera di Shakespeare. Lui inoltre afferma che gli attori ballavano una giga alla fine della recita , una consuetudine del teatro elisabettiano.
1926: La rappresentazione di gran lunga più elaborata fu inscenata durante uno spettacolo di beneficenza per l'Actors' Fund of America all' Hollywood Bowl. Cesare entrava in scena in una carrozza trainata da quattro cavalli bianchi. Il palcoscenico aveva la dimensione di un isolato ed era dominato da una torre centrale alta 24 metri. L'evento era pensato principalmente per creare lavoro per attori disoccupati: 300 gladiatori apparivano in una scena di arena non presente nell'opera di Shakespeare; un simile numero di ragazze danzava come prigioniere di Cesare; un totale di tremila soldati prese parte alle scene di battaglia.
1937: La famosa produzione di Orson Welles al Mercury Theatre scatenò infervorati commenti poiché il direttore vestì i suoi protagonisti con uniformi simili a quelle comuni in quel tempo nell'Italia fascista e nella Germania nazista oltre a tracciare una specifica analogia tra Cesare e Mussolini. Le opinioni sono molto varie riguardo al valore artistico della produzione risultante: alcuni vedono nel taglio senza pietà fatto da Welles alla trama (la durata totale era di circa 90 minuti senza intervallo, molti personaggi furono eliminati, dialoghi furono spostati o presi da altre opere, e gli ultimi due atti ridotti ad una singola scena) come un modo radicale e innovativo di tagliare gli elementi superflui del racconto di Shakespeare; altri pensarono che la versione di Welles fosse una versione rimaneggiata e lobotomizzata della tragedia di Shakespeare che mancava della profondità psicologica dell'originale. Molti furono d'accordo sul fatto che la produzione apparteneva più a Welles che a Shakespeare. Tuttavia l'innovazione di Welles ha avuto eco in molte successive produzioni moderne, che hanno visto parallelismi tra la caduta di Cesare e la caduta di vari governi del ventesimo secolo.
Parodie
Parodie Il duo Canadese Wayne and Shuster parodiò Giulio Cesare nel loro sketch del 1958 sciacqua il sangue dalla mia toga. Flavio Massimo è ingaggiato da Bruto per investigare sulla morte di Giulio Cesare. Le procedure di polizia combinano Shakespeare, Dragnet, e gli scherzi di vaudeville e fu trasmesso per la prima volta all'Ed Sullivan Show.
Preso da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

lunes, 18 de agosto de 2008

Bernardo Bertolucci/Cinema-Regista

Oggi comincia il Festival di Cinema di Bernardo Bertolucci nell Celarg, per questo poi vedere qui la storia e vittá degli piú importante regista dell´Italia. Bernardo Bertolucci (Parma, 16 marzo 1941) è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico italiano. Primogenito del poeta Attilio Bertolucci (San Lazzaro, Parma, 18 novembre 1911 - Roma, 14 giugno 2000), cugino del produttore cinematografico Giovanni (Parma, 24 giugno 1940) e fratello dell'autore teatrale e regista cinematografico Giuseppe (Parma, 27 febbraio 1947). Inizialmente sembra seguire la strada paterna, interessandosi di poesia e iscrivendosi alla Facoltà di Letteratura Moderna dell'Università La Sapienza di Roma, ma ben presto abbandona gli studi per il cinema facendo da assistente a Pier Paolo Pasolini, suo vicino di casa, ai primi passi come sceneggiatore nel mondo della settima arte. Con una camera a passo ridotto Bertolucci gira due cortometraggi amatoriali nel biennio 1959-1960, La teleferica e La morte del porco
Proprio grazie a Pasolini e all'interessamento del produttore Cino Del Duca, Bertolucci lavora come assistente nel primo film diretto dal letterato friulano, Accattone (1961). Su quel set incontra l'attrice Adriana Asti, che sarà poi sua compagna per diversi anni. L'anno seguente, con Tonino Cervi come produttore, realizza il suo primo lungometraggio, La commare secca, su soggetto e sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini, che inizialmente avrebbe dovuto esserne anche il regista.
Una personale poetica
Si stacca ben presto dal mondo e dalla poetica pasoliniani per inseguire un'idea personale di cinema basata sostanzialmente sull'individualità di persone che si trovano di fronte a bruschi cambiamenti del loro mondo e di quello circostante, a livello esistenziale e politico, senza che essi possano o vogliano cercare una risposta concisa.
Prima della rivoluzione
Tale tematica sarà presente praticamente in tutte le opere di Bertolucci, a partire dal secondo film, Prima della rivoluzione (1964), dove è esemplificata molto chiaramente nella storia di un giovane della borghesia agricola medio-alta di Parma, (Francesco Barilli) il quale, incapace di reagire al suicidio del suo amico più caro e incerto su una direzione da prendere, si getta a capofitto in una relazione con una matura e piacente zia (Adriana Asti) giunta da Milano. Entrambi, però, si rendono conto che quella storia non può durare - lei è anche in cura da uno psicologo - e alla partenza della donna, al giovane non resta che impalmare la promessa sposa imposta dalla famiglia.
Anche nei film che seguono, Bertolucci continua il suo personale discorso intorno all'ambiguità esistenziale e politica, soprattutto in Partner (1968), interpretato da Pierre Clementi, ne Il conformista (1970) con Jean-Louis Trintignant e con Strategia del ragno; opere presentate in diversi festival ma dallo scarso successo di pubblico.
Nel 1971 fu tra i firmatari del documento pubblicato sul settimanale L'espresso contro il commissario Luigi Calabresi.
Lo scandalo di Ultimo tango a Parigi
La grande notorietà per Bertolucci arriva nel 1972, con un film "scandaloso" che ha di fatto segnato un epoca: Ultimo tango a Parigi, con Marlon Brando e Maria Schneider, Jean-Pierre Leaud e Massimo Girotti, dove il sesso è visto come unica risposta possibile, ma non definitiva, al conformismo del mondo circostante; i protagonisti di questo film, come quelli che seguiranno, sono esseri alla deriva, quasi sbandati, la cui unica via d'uscita è la trasgressione.
Il film, dopo la sua prima proiezione a New York, subì notevoli traversie censorie in Italia (che comunque non impedirono al film di piazzarsi secondo nella classifica cinematografica 1972-1973); ben presto sequestrata, la pellicola venne ritirata dalla Cassazione il 29 gennaio 1976, e il regista fu condannato per offesa al comune senso del pudore, colpa per la quale venne privato dei diritti civili per cinque anni, fra cui il diritto di voto. Dopo svariati processi d'appello, la pellicola venne dissequestrata nel 1987. Le rimaste dopo il macero vennero depositate alla Cineteca Nazionale di Roma e quelle integrali, conservate in cineteche estere, sono servite come base per editare il film in DVD.
Notorietà a livello mondiale
Bertolucci incrementa la sua notorietà con le opere successive, da Novecento (1976), epico affresco delle lotte contadine emiliane dai primi anni del secolo alla Seconda guerra mondiale che si avvale di un prestigioso cast internazionale (da Robert De Niro a Gerard Depardieu, Donald Sutherland, Sterling Hayden, Burt Lancaster, Dominique Sanda) a La luna, ambientato a New York, in cui affronta lo scabroso tema dell'incesto, fino a La tragedia di un uomo ridicolo (1981), con Ugo Tognazzi.
Arrivano gli Oscar con L'ultimo imperatore
Negli anni Ottanta Bertolucci gira soprattutto all'estero kolossal di straordinaria potenza visiva. Nel 1987 dirige in Cina L'ultimo imperatore, un grande successo internazionale che si aggiudica ben nove premi Oscar, tra cui quelli per il miglior film e la migliore regia. Nel 1990 gira in Marocco il film Il tè nel deserto (1990), tratto da un romanzo di Paul Bowles, mentre nel 1993 è la volta del Piccolo Buddha con Keanu Reeves, ambientato in Nepal e negli Stati Uniti.
Gli ultimi film
In seguito il regista torna a girare in Italia riprendendo le sue predilette tematiche intimiste con risultati alterni di critica e pubblico, a partire da Io ballo da sola (1996), per proseguire con L'assedio (1998). Del 2003 è il nostalgico The Dreamers - I sognatori, che ripercorre una vicenda di passioni politiche e rivoluzioni sessuali di una coppia di fratelli, nella Parigi del 1968.
Nel 2007 riceve il Leone d'Oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia.
Anche sceneggiatore, produttore e attore
Per il cinema Bertolucci ha scritto anche numerose sceneggiature per i film suoi e per quelli diretti da altri, due dei quali da lui prodotti.La sua unica esperienza come attore si è avuta con il film Golem, lo spirito dell'esilio diretto nel 1992 da Amos Gitai. Dopo la separazione con Adriana Asti si unisce con Clare Peploe, sceneggiatrice e regista autrice insieme a Mark Peploe di Professione Reporter, già collaboratrice di Michelangelo Antonioni.
Oscar al miglior regista 1988.
Oscar alla migliore sceneggiatura non originale 1988.
Presso da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

jueves, 14 de agosto de 2008

Il ritratto di Dorian Gray (Libro)

Il ritratto di Dorian Gray (The Picture of Dorian Gray) è un romanzo di Oscar Wilde.
Uscì originariamente nel luglio del 1890 sul Lippincott's Monthly Magazine, mentre nel 1891 lo stesso autore pubblicò sul The Fortnightly Review una prefazione al romanzo ("A Preface to The Picture of Dorian Gray"), per rispondere ad alcune polemiche sollevate dalla sua opera.
Nell'aprile 1891 Wilde fece stampare in volume il romanzo, unendovi la propria prefazione. Per esigenze puramente commerciali, legate al gusto dell'epoca, l'autore revisionò il proprio romanzo e vi aggiunse molti capitoli (il 3°, il 5°, il 15°, il 16°, il 17° e il 18°) per rendere più "voluminosa" l'opera. Secondo alcuni critici, però, quest'operazione arrecò danno al romanzo originale, facendogli perdere spontaneità e una certa dose di mistero: per questo in alcune edizioni si può trovare ancora la versione originale.
Tramma
Il famosissimo pittore londinese Basil Hallward mostra al suo amico Lord Henry Wotton la sua ultima opera: il ritratto di un giovane nobile. Lord Henry è stupito dalla bellezza del ritratto e soggetto raffigurato, e chiede a Basil di conoscerlo di persona. Il pittore cede ed è costretto a presentargli il bellissimo e giovane Dorian Gray.
Il giovane ed innocente Dorian lega subito con il vissuto Lord Henry, ammaliato dall'oratoria del suo interlocutore. Lord Henry Wotton invita il giovane a non sprecare il dono della bellezza e della gioventù, e di sfruttare tutto questo per iniziare una vita piena di esperienze.
Questi spinge Dorian Gray ad esprimere, in verità per gioco, un desiderio: desidererebbe che i segni della vita e dell'età comparissero non sul suo volto, bensì su quello ritratto da Basil, e in cambio di questo prodigio sarebbe disposto a ceder la propria anima. Ma quello che è nato per scherzo, si avvera.
Mano a mano che il giovane Dorian perde la sua innocenza, che accumula esperienze non sempre gratificanti, il suo ritratto acquista una ruga, od un'espressione maligna. Dorian Gray, quando se ne accorge, ne è spaventato e nasconde il ritratto in soffitta: nessuno dovrà sapere quanto è sporca la sua anima, quell'anima resa visibile dal ritratto.
Dopo molte travagliate vicende, compreso l'assassinio dell'amico pittore Basil, (perché lo riteneva responsabile del "sortilegio") la sua corruzione è massima ma conserva ancora una faccia innocente che gli procura la simpatia della gente.Stanco del suo triste segreto, voglioso di dimenticare e di poter cominciare un nuovo capitolo della propria esistenza, ed essere realmente buono decide di distruggere l'odiata tela. Ma il ritratto è custode della sua anima e il pugnale che la mano di Dorian muove per distruggerlo finirà per colpire egli stesso. Caduto a terra morente, il suo volto riacquisterà le sue naturali fattezze, mentre il dipinto liberato dalla diabolica anima tornerà a risplendere la giovinezza di venti anni prima.
Crittica Letteraria
Il ritratto di Dorian Gray si configura come un eccellente capolavoro della letteratura inglese e come una vera e propria celebrazione del culto della bellezza. Una ‘professione di fede’ che Wilde tende a fare propria e a perseguire nell’arco della sua intera esistenza, sia attraverso la sua produzione artistica che per mezzo della sua condotta decisamente anti-Vittoriana e anti-conformista, sprezzante del buonsenso e dei canoni della morale borghese.
La vita per Wilde, si configura infatti come un’opera d’arte ben riuscita. Wilde opta quindi per il rovesciamento del principio secondo cui è l’arte che imita la vita, trasformandolo nel presupposto per il quale è la vita ad imitare l’arte. La vita è pertanto prodotto e risultato dell’arte. Di qui l’importanza attribuita all’apparenza e al dominio dei sensi, che perviene quindi all’estetismo (dal greco, ‘percepire con i sensi’), atteggiamento tipicamente wildiano (ma anche dannunziano) e caratterizzato dalla concezione di un arte fondamentalmente fine a sé stessa (art for art’s sake).
Un’esperienza, quella estetica, che non sempre si rivela giusta e retta. La visione della vita come arte implica infatti da un lato la ricerca del piacere, ovvero l’edonismo, dall’altro uno stile di vita disinibito e dissoluto che porta allo sfacelo morale e, nel caso di Dorian Gray, al crimine.
La storia di Dorian è la storia di un ragazzo particolarmente bello, il quale, proprio in virtù del suo straordinario fascino, viene dipinto in un quadro dal pittore Basil. Dorian viene però anche plagiato e iniziato al culto della bellezza dall’esteta Lord Henry, il quale gli spalanca contemporaneamente le porte del Male, ribadendogli più volte: «La vita ha in serbo tutto per voi. Non c’è nulla che voi non possiate ottenere, con la vostra straordinaria bellezza.» Mentre Dorian contempla la sua bellezza fedelmente raffigurata nel quadro esprime, quasi innocentemente il desiderio che il dipinto possa portare al suo posto i segni del passare del tempo, in modo che la sua bellezza originaria si possa mantenere per sempre intatta e inalterata. Il ‘patto col diavolo’ però si realizza e, mentre il quadro porta i segni dell’età che avanza, l’anima di Dorian porta quelli della progressiva decadenza morale, alla quale l’eccessiva dedizione al culto del bello (ma anche la lettura del romanzo À rebours di Huysmans) lo ha condotto. Scrive Wilde nel romanzo: «Niente ti rende così vanitoso come sentirti dare del peccatore»; e ancora: «Il peccato è una cosa che si legge nel volto di un uomo. Il peccato non si può nascondere.»
Wilde descrive in queste righe la decisione di Dorian di coprire una volta per tutte il quadro, orrenda testimonianza della dissolutezza e della bruttezza morale del suo soggetto.
«[...] uno splendido tessuto del tardi settecento veneziano [...] poteva servire ad avvolgere quell’orrore [il quadro]. Ora avrebbe coperto una cosa che aveva una putredine propria, più decomposta di un cadavere – che avrebbe nutrito orrori, e non sarebbe mai morta. Quello che i vermi sono per il cadavere, i suoi peccati sarebbero stati per l’immagine dipinta sulla tela. Avrebbero invaso la sua bellezza, e ne avrebbero divorato la grazia. L’avrebbero deturpata, e resa ripugnante. Tuttavia la materia avrebbe continuato a vivere. Sarebbe vissuta in eterno.»
E una donna, vittima dei comportamenti licenziosi di Dorian dirà:
«Di tutti quelli che vengono qui è il peggiore. Dicono che si è venduto al diavolo per serbare un viso intatto. Son quasi diciott’anni che lo conosco. Lui non è molto cambiato da allora. Ma io sì” aggiunse, con una smorfia disgustosa.» «Me lo giuri?» «Lo giuro» disse la bocca sciupata, come un'eco rauca. «Ma non tradirmi» piagnucolò. «Ho paura di lui.»
Dorian è completamente dedito ad un culto estetico che si traduce in uno stile di vita vizioso e depravato, e che lo porta a compiere nequizie d’ogni genere, culminanti nell’omicidio di quello che Dorian ritiene essere il colpevole della sua depravazione, ovvero l’artefice del dipinto, Basil. Non sopportando più di scorgere nel quadro, da anni segretamente riposto in soffitta, il ghigno maligno della sua dissoluzione decide di disfarsi anche di esso ma, quando pugnala la tela, cade a terra morto. Distruggendo il quadro Dorian pone fine all’altra parte inseparabile di sé, e quindi anche alla sua stessa vita, ricongiungendosi infine con la sua anima abietta e maligna.Riguardo al romanzo Wilde avrà occasione di dire, in una lettera del 1894: “Basil è ciò che penso di essere. Henry è ciò che il mondo pensa di me. Dorian è ciò che io vorrei essere”. Ed è proprio in queste poche righe che si cela il quanto mai misterioso messaggio di Wilde, secondo cui, in definitiva, il solo personaggio del romanzo non è altro che lui stesso.
Gli afforismi di Lord Wotton
Come tutte le opere di Wilde, anche Il ritratto di Dorian Gray è infarcito di sentenze, che in questo caso vengono emesse quasi esclusivamente da Lord Wotton, che ha un gusto particolare per la creazione di aforismi o pseudoaforismi. Molti di questi sono quelli che perderanno l'innocente Dorian.
Quelli di Wilde non sono veri e propri aforismi, nel senso che in genere non sono autonomi, non possono essere estrapolati dal loro contesto. Molte sentenze di Lord Wotton sono semplicemente frasi ad effetto o frasi che condensano luoghi comuni, di nessun interesse. Molti sono poi gli aforismi che mirano solo a colpire il lettore ma non hanno né vogliono avere alcun valore di verità, tanto che possono essere facilmente rovesciati (anche perché molti derivano dal rovesciamento di luoghi comuni): sono quelli che Eco chiama i paradossi cancrizzabili. Wilde li mette in bocca a Lord Wotton perché sono parte del suo ruolo di uomo fatuo, che mira solo a colpire le altre persone senza alcun riguardo per una morale (che è poi la visione distorta ed estremizzata che la gente ha di Wilde stesso). Lord Henry pronuncia anche molti paradossi autentici cioè non rovesciabili: resta in ogni caso discutibile classificarli come aforismi, proprio perché non sono in genere massime autonome e soprattutto perché l'autore le formula senza alcuna pretesa che siano vere. Non si percepisce assolutamente nel libro una condanna morale da parte di Wilde verso Dorian, anzi si evince profonda simpatia per lui che, in fondo, è più vittima che carnefice.
Perssonaggi
Dorian Gray, giovane bello e innocente all'inizio del racconto ma poi, dopo aver desiderato di non invecchiare mai diventa una persona crudele. Lord Henry Wotton gli fa aprire gli occhi sulla sua bellezza e allora Dorian desidera di restare giovane in eterno. Ogni volta che compie un'azione scorretta, non sarà lui a mutare ma il suo ritratto. Quando Dorian si rende ormai conto che è divenuto una persona orribile (interiormente) decide di disfarsi del suo "vecchio ritratto", ma poiché esso è la sua anima, quando impugna il coltello per distruggerlo,egli colpisce se stesso al cuore.
Lord Henry Wotton, suo amico ed in qualche modo il diavolo tentatore. È lui che rende Dorian Gray una persona spietata, tutto ciò accade soltanto perché lo fa accorgere di tutto ciò che potrebbe fare tramite il suo aspetto rassicurante ed innocente.
Basil Hallward, pittore amico di Dorian che lo ha reso un pittore di alto livello grazie alla sua presenza influente. Ha degli stimoli omosessuali verso il ragazzo dal nome Dorian, ma l'unica cosa che riesce ad ottenere è una coltellata nella nuca, quando Basil prega Dorian di ravvedersi per il male compiuto.
Alan Campbell, chimico legato a Dorian che si è in qualche modo sacrificato per lui.
Sibyl Vane, la ragazza di cui Dorian si innamora e con la quale non riesce neppure a stabilire un contatto fisico
James Vane, il fratello di Sibyl, che dopo la morte della sorella tenta di uccidere Dorian Gray.
Oscar Wilde in una lettera ad un suo amico (Robert Ross)dice: Basil Hallward è quello che credo di essere, Henry Wotton è come il mondo mi dipinge e Dorian Gray è quello che mi piacerebbe essere.
Altre opere ispirate al romanzo
Nel romanzo Dorian, del 2004, Will Self rielabora in chiave moderna ed omosessuale il mito di Dorian Gray, calandolo nella Londra degli anni ottanta.
Nel 2002 è stato realizzato un musical basato sul romanzo di Wilde da Tato Russo in collaborazione con Mario Ciervo; al 2006, il musical ha realizzato 4 anni di repliche.
Note
Sugli aforismi in generale e in particolare sugli aforismi di Wilde, si veda Umberto Eco, Wilde. Paradosso e aforisma, in Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2002. Per qualche esempio, consultare l'elenco di aforismi collegato.
Preso da Wikipedia, l'enciclopedia libera.